Per oltre dieci anni le economie emergenti sono rimaste in secondo piano rispetto a quelle più sviluppate. Dal 2011 al 2024, infatti, i listini dei paesi in via di sviluppo hanno reso meno rispetto a quelli delle grandi potenze industrializzate. A pesare sono stati soprattutto il dollaro forte e la crescita più debole degli utili aziendali, in confronto allo slancio delle big tecnologiche americane. Ma il 2025 ha cambiato il copione. Nei primi sei mesi dell’anno l’indice che raccoglie le principali azioni dei paesi emergenti ha battuto gli altri mercati mondiali, riportando entusiasmo tra analisti e investitori.
Mercati emergenti e lo zampino di Trump
Un ruolo chiave in questo cambiamento lo ha giocato il ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. In molti pensavano che la sua politica pro-business avrebbe rafforzato ancora di più l’economia americana. In realtà, le mosse del nuovo governo hanno messo in luce diverse fragilità. La scelta di alzare i dazi e aprire nuovi fronti commerciali ha mostrato che gli Stati Uniti non sono più l’unica potenza in grado di dettare le regole. Cina, India e Arabia Saudita hanno dimostrato di saper tenere testa a Washington.
Pechino, in particolare, forte del suo ruolo di fornitore di minerali rari indispensabili per la tecnologia, ha potuto rispondere con fermezza senza subire danni significativi. Sul piano interno, anche il piano di spesa soprannominato “Big, Beautiful Bill” solleva dubbi. Secondo le stime, potrebbe far crescere il deficit federale di almeno 3.000 miliardi di dollari in dieci anni. Questo costringerà gli Stati Uniti a emettere più titoli di Stato, ma non è detto che gli storici acquirenti, come la Cina, siano disposti a comprarli come in passato.
Un dollaro debole fa bene ai mercati emergenti?
Un altro tassello importante è il dollaro. Dopo aver toccato il massimo valore nell’autunno del 2023, la valuta americana ha iniziato a indebolirsi. Il trend è proseguito con più forza da quando Trump è tornato alla Casa Bianca. Alla base ci sono vari fattori: i timori di recessione, le tensioni tra il presidente e la Federal Reserve – accusata di non voler abbassare i tassi di interesse – e la crescente preoccupazione per l’aumento del debito pubblico. Risultato: dall’inizio del 2025 il dollaro ha perso circa il 10% rispetto alle principali valute mondiali.
Un dollaro meno forte, se il calo resta graduale, può avere effetti positivi: rende più convenienti le esportazioni americane e allo stesso tempo stimola i paesi emergenti a importare di più dagli Stati Uniti. Ma un crollo troppo rapido rischierebbe di creare instabilità. Il contesto ha riportato l’attenzione sugli emergenti, che offrono prospettive interessanti. Queste economie hanno davanti a sé crescita demografica, margini di produttività ancora inespressi e aziende pronte a cogliere queste opportunità.
Eppure, nonostante le potenzialità, i titoli dei mercati emergenti costano ancora molto meno rispetto a quelli statunitensi: lo sconto medio si aggira intorno al 50%. Nel 2011 la situazione era l’opposto, con un premio del 10%. Non ci si aspetta un ritorno a quei livelli, ma anche una riduzione dello sconto al 20% significherebbe ampi margini di crescita. Il 2025 segna quindi un passaggio storico: la supremazia americana non è più scontata e i mercati emergenti si candidano a diventare protagonisti. Per gli investitori, non si tratta più soltanto di diversificare: guardare a queste nuove realtà potrebbe essere la chiave per intercettare la crescita futura.