Durante i primi di febbraio, il Bitcon ha dato la sensazione di essere sul punto di crollare definitivamente. Nel giro di pochissimi giorni, aveva ritracciato quanto di buono aveva accumulato nel corso degli ultimi sei mesi. Causa scatenante, le “attenzioni” delle istituzioni politiche ed economiche, che hanno minacciato di procedere con una regolamentazione ferrea, e i bandi di alcuni paesi asiatici. Ora che il momento peggiore sembra essere passato, però, non rimane che riflettere su quanto accaduto, soprattutto dal punto di vista della reputazione. All’improvviso, infatti, era sembrato che il Bitcoin fosse diventato il peggiore dei mali della terra, un ricettacolo di pericoli, ed erano riemerse le solite accuse, quelle che associano il Bitcoin al riciclaggio.

Ora, a braci (quasi) fredde, è possibile ragionare sul tema in maniera più razionale. Cosa c’è di vero? Cosa dicono i pochi dati di fatto dei quali si dispone attualmente? Veramente il Bitcoin è la valuta preferita dai terroristi? Veramente è utilizzata per finanziare traffici illeciti, magari di droga e armi?

Bitcoin e criminalità: i numeri di un legame debole

Per rispondere a queste domande, e fare un punto definitivo della situazione, possiamo fare riferimento a un interessante articolo de La Stampa pubblicato il 6 febbraio.

Prima di tutto, una precisazione: i pericoli ci sono, ma vanno pesantemente ridimensionati. L’attenzione, semmai, dovrebbe essere spostata dal Bitcoin, che pure ha i riflettori puntati, alle altre criptovalute, e nello specifico a quelle minori, che garantiscono un anonimato maggiore e quindi possono rappresentare, almeno a un livello teorico, un terreno più fertile per i criminali. Anche perché, a rigor di termini, Bitcoin non garantisce l’anonimato, bensì uno “pseudonimato”. In estrema sintesi, è possibile percorrere a ritroso una transazione fino a trovare gli autori.

Per il resto, è meglio fare riferimento ai numeri. Come quelli di un recente studio di Elliptic e Center on Sanction of Illicit Financing, intitolato “Bitcoin Laundering: an analysis of illicit flows into digital currency service”. Ebbene, si evince che qualcosa di sospetto c’è sicuramente, ma i numeri sono comunque bassi. Va detto, in ogni caso, che lo studio pur essendo molto accurato si caratterizza per un campione limitato, quindi anche i suoi dati, per quanto il materiale sia soddisfacente per tirare qualche conclusione di massima, vanno presi con le pinze. Nello specifico, il campione consta di varie transazioni di Bitcoin eseguite tra il 2013 e il 2016, analizzate allo scopo di individuare i flussi provenienti dal cosiddetto Dark Web, che comprende mercati neri quali quello dei rasomware. Flussi che il cui scopo era trasformare Bitcoin in dollari ed euro. Ebbene, secondo lo studio, le transazioni sospette erano circa l’1%. Una percentuale troppo alta? Troppo bassa? Nemmeno a questa domanda si può rispondere in maniera univoca. Dipende, infatti, dal termine di paragone, che può essere l’aspettativa pregiudizievole dei detrattori come le percentuali note all’interno delle transazioni con valuta tradizionale. A scanso di equivoci, sono gli stessi autori dello studio che invitano alla prudenza, nella interpretazione dello studio. Yaya Fanusie, direttore del Centre on Sanction of Illicit Financing, infatti, ha dichiarato proprio a La Stampa: “Noi abbiamo analizzato solo i bitcoin sporchi che provenivano da indirizzi noti, non abbiamo coperto tutte le attività. Il volume attuale di transazioni illecite di bitcoin è sicuramente più alto“.

Dai dati emerge che, se si parla di scambi e finanziamenti illeciti, i vecchi canali sono i migliori. Quindi, più che urlare al legame tra Bitcoin e riciclaggio, bisognerebbe gridare al legame tra exchange tradizionali e riciclaggio. Piccola parentesi: buona parte dei flussi individuati dagli autori dello studio attraversa l’Europa. Questo vuol dire che il Vecchio Continente è vulnerabile? Certamente, la situazione non è delle più rosee, ma neanche pessima come lo studio suggerisce. Questa discordanza deriva dal fatto che lo studio fotografa una situazione non recentissima, quella del quadriennio 2013-2016, che è precedente alla grande stretta sui contanti inaugurata in buona parte dell’Europa due anni fa. E’ lo stesso Fanusie a riconoscere il cambiamento: “Ultimamente i servizi di cambio europei, gli exchange, sono migliorati”. Un altro fattore che ha determinato la preponderanza dei vecchi canali “offline” potrebbe essere il peso minore, in termini numerici, degli illeciti online rispetto a quelli offline. E, nonostante quel che si dice sul rapporto tra Bitcoin e riciclaggio, le cripto, se mai vengano utilizzate, sono protagonista esclusivamente o quasi degli illeciti commessi in rete. Fanusie in merito è stato piuttosto lapidario: ““Il riciclaggio attraverso monete digitali ha senso per attività illecite che nascono o sono perpetrate online. Diversamente i contanti restano l’opzione migliore, se commetti un crimine offline. In quel caso non conviene passare per le ‘cripto’ e riconvertire di nuovo in euro o dollari”.

Bitcoin e terrorismo

Un colpo notevole al falso mito del “Bitcoin e riciclaggio” è dato da una delle conclusioni più importanti, che Fanusie riassume così. “In questo momento bitcoin non è uno strumento utile per gruppi terroristici. La sua adozione non è abbastanza ampia. E poi c’è un problema di identità, nel senso che le transazioni possono essere ricondotte ai loro autori a meno di non intraprendere molti passaggi. Insomma non è un mezzo semplice per la raccolta fondi in ambito terroristico”. Insomma, il Bitcoin non è abbastanza “sicuro” per i terroristi. Se si guardano ai due fattori che, per adesso, impediscono l’uso massivo da parte dei terroristi, si può stare relativamente tranquilli: solo uno, infatti, potrebbe cambiare e favorire l’uso terroristico della criptovalute. Il riferimento è, ovviamente, alla diffusione. Un mondo in cui Bitcoin è la normlità, non è più utopia. Per quanto riguarda la questione dell’anonimato, è veramente difficile pensare che in un prossimo futuro il Bitcoin stravolga la sua struttura, e per giunta in un senso che va nella direzione opposta a quella richiesta dalle istituzioni. Sarebbe, infatti, un passo indietro molto vistoso.

Al netto di questi elementi positivi, si segnalano alcuni esperimenti che non promettono nulla di buono. Come quello che ha come protagonista un gruppo siriano di nome al-Sadaqah, che utilizzava i social per chiedere donazioni in Bitcoin. A preoccupare non sono i numeri: il gruppo aveva totalizzato una cifra pari a qualche milione di euro, quanto la metodologia di riciclaggio che stava dietro.  Una metodologia alquanto sottile, ma spiegata chiaramente da Paolo Dal Checco, informatico forense impegnato nelle indagini sulle criptovalute. Contattato da La Stampa ha dichiarato: “In effetti quello diffuso da questa specifica campagna di raccolta fondi è un indirizzo singolo che non fa parte di wallet più grossi. Una parte dei soldi sono andati a finire in quello che sembra essere un mixer (un servizio che mescola bitcoin provenienti da transazioni diverse per farli poi uscire avendo mischiato le tracce e provenienze, ndr), ovvero è un indirizzo usato e svuotato che fa parte di un wallet più grande dove sono passati nella sua storia quasi 3.000 bitcoin”. In buona sostanza, il gruppo, conoscendo i “limiti” (dal loro punto di vista) del Bitcoin, non ha fatto altro che ideare un flusso per far perdere le tracce. In un certo senso, è come se abbia seminato la struttura della criptocurreny che, per sua stessa indole, avrebbe assegnato – per quanto in maniera indiretta – una identità agli autori delle transazioni.

Insomma, il legame tra Bitcoin e terrorismo è inesistente, o al massimo sporadico e frutto delle iniziative di singoli. E’ di questa idea anche il Center for a New American Security, che con il suo studio “Terrorist Use of Virtual Currencies” già un anno fa tirava la seguente conclusione: “Attualmente ci sono solo pochi esempi di gruppi terroristi che abbiano usato valute virtuali per sostenersi”. Secondo lo studio, i canali preferiti sono quelli tradizionali, che passano soprattutto per Hawala, il meccanismo informale di trasferimento di beni mediante intermediatori, che va tanto di moda in Medio Oriente.

Lo studio, comunque, tende a precisare che il mancato utilizzo delle criptovalute da parte delle organizzazioni terroristiche non è giustificato esclusivamente dalla forza e dalle misure di sicurezza improntate da Bitcoin e compagnia, quanto da un semplice fatto: non vi è una vera necessità, i terroristi si riescono a finanziare alla vecchia maniera, in quanto “Possono ancora aggirare con facilità le regole globali per bloccare il finanziamento di terroristi”. Senza trascurare il caro vecchio contante.

Bitcoin e altre storie

Se il legame tra Bitcoin e terrorismo è quasi nullo, non è così per il Bitcoin e riciclaggio tout court. In alcuni casi, il rapporto è meno evanescente. L’articolo de La Stampa tratta proprio questo argomento, questa volta dando voce a Federico Paesano, ex membro della Guardia di Finanza, ora investigatore finanziario per il Basel Institute of Governance. Proprio l’investitore ha tenuto a sottolineare un fenomeno allarmante e duplice: l’integrazione tra più criptovalute e l’impiego di quelle considerate di nicchia. Nello specifico, ha dichiarato a La Stampa: “Abbiamo notato un aumento di casi in cui certi crimini, come i ransowmare, sono remunerati in Bitcoin e la fase di riciclaggio si fa in altre valute, in Monero o zCash”.

Il motivo è semplice: Monero e zCash sono le uniche criptovalute di un certo peso che puntano tutto sul rispetto della privacy, un concetto nobile ma che in mano ai criminali diventa anonimato a scopo di lucro.

Quando il riciclaggio ha come protagonista queste valute virtuali, i problemi per gli investigatori si fanno notevoli. A dirlo (ancora una volta a La Stampa) è Marco Valleri, fondatore di Neutrino, società specializzata in analisi di transazioni in valute virtuali: “Anche gli Shadow Brokers (il gruppo di hacker che ha diffuso online le armi digitali della americana National Security Agency, ndr) hanno incassato in monero. A quel punto è difficile anche fare una esplorazione dei blocchi sulla blockchain, sul registro delle transazioni, come si farebbe con Bitcoin”.

Il punto della situazione e i provvedimenti delle istituzioni

Riassumendo: i problemi non vengono dal Bitcoin. In primo luogo, perché la tecnologia che sta alla base non garantisce un anonimato, e quindi per raggiungerlo è necessario adottare accorgimenti che rendono il suo utilizzo poco conveniente. Maggiori problemi, invece, provengono dalle criptovalute minori, soprattutto da quelle che garantiscono un assoluto anonimato. Poi: Bitcoin e terrorismo non pervenuto, Bitcoin e ransomware, sì ma nei limiti dell’emergenza.

Alla luce di ciò, come si stanno comportando i governi e le istituzioni. L’opinione comune è che sia meglio prevenire che curare. L’Italia è in testa, una volta tanto. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, infatti, ha avanzato una proposta per creare un registra dei cambiavalute virtuali. In estrema sintesi, chiunque dovesse offrire servizi di intermediazione, formali o informali, tradizionali o sui generis, aventi per oggetto le criptovalute, è chiamato a iscriversi in un apposito registro. L’obiettivo del ministero è evidente: censire e monitorare, con tanto di nomi e cognomi, il fenomeno delle criptovalute nel nostro paese.

ftmo